Settembre 19, 2024

Partiamo con la premessa che catalogare, classificare e dare un voto ad un disco non lo trovo corretto. Concettualmente, un disco, è un’opera d’arte privata, figlia di un determinato periodo e in questo deve essere contestualizzato. E’ ovvio che andando nel campo dell’oggettività possiamo definire se è migliore o peggiore di un altro album, ma dobbiamo evitare di scendere in paragoni che lasciano il tempo che trovano. 

Black Cat (1:32)

Il brano strumentale, corto, all’inizio di un album è un marchio di fabbrica di David Gilmour, sia da solista che con i Pink Floyd e anche questo disco apre nella stessa maniera. Black Cat ci fa pensare subito all’adesivo attaccato alla sua chitarra mostrato sui social, ma rimanda anche allo Chat Noir di Parigi (i più ricorderanno Rattle That Lock). Il brano è un breve dialogo tra pianoforte e chitarra in pieno sound gilmouriano. Se ascoltate questo brano senza sapere nulla della sua provenienza capirete molto velocemente che alla chitarra c’è David Gilmour.

Luck And Strange (6:56)

La title track, ripresa come sappiamo ormai da mesi dalle famose barn jam del 2007, è un classico brano tendente al blues dove il cuore va per forza di cose a Richard Wright. Con un buon accompagnamento dell’accoppiata Pratt / Di Stanislao, Gilmour si esalta alla voce sfociando in un assolo dialogando con Wright, in maniera sublime. Siamo in un periodo d’oro per Gilmour, forse il miglior periodo della sua carriera da solista e qui si sente. E’ uno dei punti più alti del disco.

The Piper’s Call (5:15)

Il primo singolo scelto per l’album è un brano che ormai abbiamo già ascoltato molte volte e finalmente nelle ultime interviste, Gilmour, ha chiarito che questo pifferaio non c’entra con l’altro, quello dell’esordio dei Pink Floyd. All’inizio sembra di assistere ad Yes I Have Ghost per poi tornare ai suoni a cui siamo più abituati. Non è una brutta canzone ma sinceramente non rientra nei momenti memorabili di questo disco.

A Single Spark (6:04)

Una canzone nettamente diversa da quanto finora ascoltato. Un’introduzione interessante che ci fa sentire la “nuova sonorità” di questo disco (e di questo produttore?), ma che nel proseguimento del brano risulta essere troppo banale. Forse il brano meno interessante se non fosse per il lungo assolo di chitarra (oltre 2 minuti) accompagnato dall’orchestra. Da segnalare il tocco di campana che ricorda High Hopes.  

Vita Brevis (0:46)

Il titolo rispecchia la durata della canzone che è’ un incrocio tra padre e figlia, tra chitarra e arpa. In buona sostanza è un’introduzione alla canzone successiva, gradevole, ma di fatto riempitiva.

Between Two Points (5:46)

Il secondo singolo estratto dal disco, e senza dubbio il migliore, è un piccolo gioiellino. La cover, arrangiata egregiamente da Gilmour, è impreziosita dalla voce della figlia Romany. Il timbro della sua voce si adatta in maniera celestiale al brano dove è assolutamente la protagonista.

Dark And Velvet Nights (4:44)

Secondo chi vi scrive, il terzo singolo estratto dall’album, è una outtake di Rattle That Lock. Sembra proprio di risentire quel Gilmour, forse con un po’ più di grinta. Bella la parte di hammond del nuovo tastierista Rob Gentry, intensa e forte. Fastidiosa la parte centrale.

Sings (5:14)

Unica canzone del disco a non avere un assolo di chitarra, è una ballata dal sapore romantico che ricorda vagamente le sonorità di The Division Bell, specialmente nella chitarra acustica. Qui si sente benissimo il tocco di Pratt con un giro di basso bello e ripetitivo. Lodevole l’assolo alle tastiere.

Scattered (7:33)

A chiusura di questo disco Scattered che sicuramente è una fra le migliori canzoni del disco. Sonorità floydiane a 360° gradi, dal battito del cuore di Speak To Me, le note acute al piano che ricordano palesemente Echoes, il cambio da acustica ad elettrica come in High Hopes e l’assolo in pieno stile Comfortably Numb. Sonorità note, ma con un intermezzo non banale tra orchestra, piano e batteria per poi riprendere il motivo principale della canzone. 

Conclusioni

In questo disco il tema principale rimanda alla vecchiaia e alla morte, non è un concept album, ma possiamo dire che c’è un certo filo logico a tutto ed è questa forse la vera novità. Chi si aspettava un netto cambio di sound rimarrà deluso. Già dall’inizio il tocco inimitabile di Gilmour si sente, ed è anche normale che sia così. Certamente la mano del produttore ha influito molto di più sulla struttura globale del disco e meno in quella del sound. Sì le canzoni hanno quasi tutte una fine e una buona metrica nella lunghezza, ma Gilmour non rinuncia affatto ai suoi suoni dell’era floydiana e solista. La canzone Luck And Strange tende a dare la conferma che per il miglior Gilmour dobbiamo tornare proprio nella prima decade degli anni 2000, dove era fortemente ispirato. Come al solito in questi casi c’è chi grida al capolavoro e chi alla ciofeca, ma la verità è sicuramente nel mezzo. Ci sono passaggi molto interessanti e gradevoli, alcuni molto meno. Al netto di tutto se togliamo i due brani strumentali, la cover e la jam ripescata, si contano 5 brani del tutto nuovi con forse Sings che si dissocia completamente dal Gilmour che siamo abituati a sentire. Infine per chi acquisterà la versione in CD avrà come bonus track, oltre alla nota Yes I Have Ghosts, l’original barn jam di Luck And Strange con i soli Gilmour, Wright, Pratt e Di Stanislao, 14 minuti di Musica con la M maiuscola. 

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Luck And Strange – Recensione by Francesco Madonia is licensed under CC BY-NC-ND 4.0

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