Marzo 9, 2025
Wordpress (1)

Nella sezione “Stories Behind The Songs” del sito ufficiale di Syd Barrett, è stato pubblicato ieri un articolo scritto dall’artista Robyn Hitchcock. Grande ammiratore di Barrett, Hitchcock racconta l’impatto che ebbe su di lui un articolo del 1971 dedicato a Syd e alla canzone Wolfpack. Colpito dalla forza e dal surrealismo del testo, quell’esperienza lasciò un segno profondo sulla sua carriera musicale. Qui di seguito trovate la traduzione in italiano.

Ero su una scala mobile a Londra, scendendo nella metropolitana con una copia di Rolling Stone in mano. Era la fine del 1971 e non ero felice. A scuola la vita era filata liscia, ma nel mondo reale stavo andando alla deriva. 

Una ragazza tossicodipendente – un’altra figlia della classe media persa come me, ma ancora più alla deriva – cercò di parlarmi. Le dita, ingiallite dal fumo del tabacco, erano aggrappate al corrimano. La fulminai con lo sguardo per istinto di difesa.

“Mio Dio”, disse. “Perché mi guardi con quegli occhi pieni di odio?”

Si allontanò lentamente, mentre io mi incamminai verso l’orrore profondo e cilindrico della Northern Line.

Ma la mia mente era già altrove. Su una pagina interna di Rolling Stone avevo visto un titolo: “Il folle che ha dato il nome ai Pink Floyd”, e sotto, una foto sorprendente di Syd Barrett, dallo sguardo cupo e spaventato.

“A seconda di chi ne parla, Syd Barrett è morto, in prigione o ridotto a un vegetale. In realtà è vivo, e più enigmatico che mai…” iniziava l’articolo.

Lessi il resto, rapito. Sapevo chi fosse Barrett, naturalmente, o meglio, chi era stato: la sua musica con i Pink Floyd era la mia parte preferita della loro produzione. Ma non avevo mai pensato di seguirlo oltre quel periodo. Gli amici più groovy dicevano che i suoi dischi da solista erano “deludenti”.

Rimasi fermo all’ingresso della piattaforma e sprofondai ancora di più nella lettura dell’articolo. Descriveva un giovane brillante e di successo che aveva perso slancio ed era tornato a vivere nella casa materna, nella periferia di Cambridge. Per l’intervista – che sarebbe stata l’ultima della sua vita – era emerso dal seminterrato in cui ormai abitava.

Non conoscevo ancora i dettagli del suo crollo, della sua estromissione dai Pink Floyd o della sua discesa nell’inerzia. Ma il suo modo di esprimersi era sorprendente:

“Sto percorrendo il sentiero all’indietro… pieno di polvere e chitarre.”

“Cammino molto – otto miglia al giorno: si noterà di certo, ma non so come.”

Barrett parlava per frammenti illuminanti.

“Guarda quelle rose… naturalmente, una volta che entri dentro qualcosa…”

Lo scrittore parlava della bellezza spettrale e poetica di Syd; poi descriveva come, in un impeto di entusiasmo, il poeta spettrale gli avesse mostrato un manoscritto ordinatamente dattiloscritto delle sue liriche. Il brano preferito di Syd, a quanto pareva, era Wolfpack dal suo secondo (e ultimo) album da solista.

Il mio treno arrivò alla stazione della metropolitana e ripartì subito. La ragazza tossicodipendente si muoveva su e giù per la banchina, cercando di parlare con i passeggeri. Continuai a leggere, magnetizzato:

“Beyond the bar winds 

Of the reflecting electricity eyes, tears 

Life that was ours grows sharper and stronger away and beyond;

Short wheeling, fresh spring 

Gripped with blanched bones 

Moaned, magnesium proverbs and sobs.

Howling the pack in formation appear

Diamonds and Clubs, light misted fog of the dead 

Waving us back in formation the pack 

In formation.”

Ero catturato. Era questo. Per me, Syd Barrett formava una triade con Bob Dylan e Captain Beefheart. Questo era ciò di cui parlavano le parole del rock: ciò di cui potevano parlare, portato all’estremo. Il modo in cui Barrett mescolava i lupi con le carte da gioco era già abbastanza interessante, ma l’impeto, la follia, la pura demolizione dell’intera canzone andavano oltre la magia: rispecchiava esattamente come mi sentivo mentre mi avvicinavo ai 19 anni.

Poco dopo avevo comprato l’album Barrett, con il disegno di insetti fatto da Syd sulla copertina, e mi ci ero completamente immerso. Che poi ne sia mai uscito del tutto è discutibile.

Così come all’inizio dell’adolescenza avevo assorbito Visions of Johanna di Dylan, ne uscii praticamente diventando Wolfpack.

“Dovrebbero esserci più canzoni così”, pensai, e feci del mio meglio per scriverne.

Ma posso esprimere solo me stesso – anche se riesco a abitare facilmente le canzoni di Syd – e, per fortuna, non ho mai vissuto un crollo psicotico.

A occhio, questa canzone sembra essere una delle ultime che è riuscito a scrivere, o almeno a portare a termine. Come per Visions of Johanna, l’intensità surreale di Wolfpack risuonava con ciò che già avevo dentro; allo stesso tempo, alzava l’asticella, mi dava qualcosa a cui aspirare – e inevitabilmente mancare, ovviamente.C’è una verità lì dentro, evocata dalle parole ma che va oltre di esse.

“All enmeshing, hovering” – già.

Grazie, Mr. B, ovunque tu sia andato…

La Newsletter di Flaming Cow

Iscriviti per ricevere gli articoli direttamente nella tua casella di posta!

Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.

Barrett

Con il tuo acquisto sostieni il sito e a te non costa nulla

The Madcap Laughs

Con il tuo acquisto sostieni il sito e a te non costa nulla

Opel

Con il tuo acquisto sostieni il sito e a te non costa nulla

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *